"II nuovo capitalismo e la rivoluzione"

di Fausto Bertinotti

Risposta allo scritto del subcomandante Marcos "Ossimoro"

[pubblicata su "Liberazione" del 31 luglio 2000]

 

Caro Subcomandante Marcos,

sono felice che il nostro colloquio continui. Per noi questo filo rosso che ci unisce è essenziale per aumentare la nostra comprensione del mondo. E’ forse vero, come diceva un grande poeta, che si può capire il mondo anche semplicemente guardando un filo d’erba. Ma se si riesce ad essere messi in connessione con le esperienze più avanzate di lotta culturale, politica e sociale contro la globalizzazione del nuovo capitalismo, si comprende assai prima e meglio. Siamo perciò molto interessati ad approfondire la conoscenza e la comprensione della straordinaria esperienza che il vostro popolo sta conducendo, la vostra pratica politica e sociale, la sua influenza sulla vostra cultura e su quella di tutti coloro che nel mondo vogliono opporsi al liberismo. Lei, nel suo articolo dello scorso aprile, si rivolge agli intellettuali del mondo e in particolare a quelli europei, e da loro giustamente pretende una risposta che sia almeno in sintonia con i grandi problemi del mondo contemporaneo. Di questo dirò dopo, ma in primo luogo voglio affermare che siamo soprattutto noi a voler conoscere le vostre riflessioni che ci giungono da un punto di eccellenza - è proprio il caso di dire conquistato sul campo - nella lotta al nuovo capitalismo. Per questo guardiamo al Chiapas non solo in modo solidale, profondamente solidale con il vostro popolo, ma anche come a un punto di osservazione fondamentale per capire la natura dell’avversario che sta di fronte a tutti noi. Le sue nuove caratteristiche possono essere disvelate solo da un movimento in atto che lo contrasta, altrimenti la conoscenza dei suoi fenomeni, anche se esatta, è solo arida e storicamente muta. Dobbiamo dircelo con franchezza: abbiamo compreso sulla globalizzazione di più dai movimenti che si sono sviluppati in questi ultimi anni, che non in anni di studi e di discussioni, che pure rivendichiamo, sulle nuove tendenze del sistema capitalistico. Con grande umiltà intellettuale dobbiamo chiederci il perché di questo. Avanzo allora un’ipotesi: studi e approfondimenti non sono certo inutili, ma solo l’iniziativa di quei movimenti anticapitalisti ha provocato un contrario moto di reazione nel campo avversario. Ciò che ha permesso di vedere meglio al suo interno, e, per così dire, gli ha tolto la maschera. E’ quindi importante che continuiamo, possibilmente con maggiore frequenza ed intensità, a confrontare il nostro punto di vista sulla globalizzazione di europei e di italiani con il vostro e con quello di altre esperienze di lotta; ancora più importante è che ci sentiamo tutti, pur da diversi angoli visuali, parte di un movimento mondiale contro il liberismo, un movimento che sta prendendo sempre più consistenza e coscienza di sé. Quanto è accaduto in questi ultimi mesi ha davvero dato una grande propulsione a questo movimento. Da Seattle in poi, passando per Davos, per Firenze, per Genova, per Bologna, per Ginevra, per Okinawa, quindi dagli Usa all’Europa, per giungere al Giappone, si sono succedute grandi manifestazioni di massa tutte le volte che gli organi del governo mondiale del capitale si sono riuniti, sia quando si trattava del Wto, del G8, o della Nato. Se la globalizzazione è frammentata, la resistenza e l’opposizione ad essa cresce nel mondo intero con modi e cadenze che tendono ad unificare il movimento che la contrasta. Anche se siamo ancora molto lontani dalla costruzione di un movimento politico di massa. Dobbiamo e possiamo agire su questa palese contraddizione, perché essa non nasce solo dai nostri desideri, ma dalle contraddizioni profonde del nuovo capitalismo mondiale.

C’era una volta il neocapitalismo

Perché ritengo che sia bene usare questa espressione così impegnativa di nuovo capitalismo? In effetti non è la prima volta che da noi, in Italia, si usa questa espressione. Agli inizi degli anni sessanta, ad esempio nel movimento comunista, sulla base di un’analisi rigorosa, condotta in diversi studi e convegni delle tendenze in atto, si è fatto ricorso al termine di neo-capitalismo. Quel termine ebbe molta fortuna ed effettivamente identificava una fase dello sviluppo del capitalismo straordinariamente propulsiva, nella quale cresceva il capitale e contemporaneamente l’occupazione operaia, aumentavano i profitti ma era possibile, attraverso le grandi lotte di classe e sindacali, verificare una crescita dei redditi delle classi subalterne, ossia, seppure in modo pesantemente diseguale, la ricchezza prodotta veniva ridistribuita attraverso la crescita del conflitto di classe. E’ stato l’apogeo di quello che nel mondo capitalistico avanzato si è chiamato il sistema fordista-taylorista-keynesiano. Quel mondo che, lo ripeto, abbiamo conosciuto, ma solo nei paesi del capitalismo sviluppato, è definitivamente tramontato. Per dirla in estrema sintesi: oggi allo sviluppo del capitale non corrisponde minimamente un miglioramento della condizione occupazionale e di vita delle classi lavoratrici; di più, la crescita economica, quando c’è, si è separata definitivamente dal progresso della civiltà. Battersi per quest’ultima significa ormai la stessa cosa che lottare per il superamento del capitalismo. Questo non vuol dire affatto che il modello capitalistico abbia smesso di espandersi. Al contrario, siamo di fronte alla globalizzazione del sistema capitalistico. Ma, domandiamoci, che cosa realmente si espande del sistema capitalistico? II consumo, un relativo benessere, una conseguente integrazione sociale? Assolutamente no. Le differenze di condizione sociale e di reddito nel mondo crescono enormemente. Non ho bisogno di dirlo a voi e per tutti valgono i dati veramente drammatici contenuti nell’ultimo rapporto sullo sviluppo umano dell’Onu.

Una gigantesca riorganizzazione produttiva

Ciò che si generalizza è l’organizzazione della produzione capitalistica, cioè si verifica una gigantesca integrazione produttiva, per cui le imprese capitalistiche mutano la loro geografia interna. Se prima esse occupavano, con i loro stabilimenti, i loro uffici, le loro agenzie commerciali, una città o una regione, oggi sono articolate su un territorio che spesso copre il mondo intero. La delocalizzazione delle imprese capitalistiche nei paesi - dove si possono imporre ferree discipline senza paura di incorrere in vincoli legislativi, orari senza controllo nella durata e nell’intensità, salari infimi a malapena al livello della sopravvivenza del singolo lavoratore, e spesso persino al di sotto – è ormai diventata la parola d’ordine dei capitalisti. Questo permette loro di organizzare al proprio interno metodi di produzione di tipo post-fordista, facendoli convivere con metodi classicamente fordisti o addirittura prefordisti in altre parti del mondo, in modo tale che tutte le varianti dell’esercizio dello sfruttamento e dell’estorsione del plus-valore vengono applicate alla ricerca del massimo profitto. In questo quadro i diritti dei lavoratori nei paesi di più forte tradizione operaia e sindacale vengono travolti. Con la benevola complicità delle forze della sinistra liberale e moderata e del sindacalismo tradizionale, vengono introdotte forme sempre più selvagge di precarietà, di flessibilità, di lavoro servile, fino a rendere organici al processo di valorizzazione del capitale i modi più bestiali dello sfruttamento, dal lavoro dei fanciulli alla rincorsa del più basso salario possibile. Contrariamente a quanto pensano sociologi di tutto rispetto, non stiamo assistendo affatto alla fine del lavoro; anzi, le previsioni sono di un aumento delle forme di lavoro subordinato. Certamente queste non sono uguali a quelle del periodo fordista-taylorista. Infatti aumenta il lavoro precario, incerto, insicuro e malpagato. Questo succede negli Stati Uniti, dove molti lavoratori hanno un reddito al di sotto della povertà, ma accade anche in Europa, come inevitabile conseguenza dell’applicazione delle teorie neoliberiste e dell’abbattimento del sistema del welfare state. In sostanza stiamo assistendo ad un processo di americanizzazione dell’Europa, voluto dalle classi dirigenti europee, sospinto dai grandi centri finanziari internazionali, che puntano a ridurre a spazio di mercato ciò che un tempo, grazie essenzialmente alle grandi lotte del movimento operaio e democratico, era pubblico. Questo processo investe tanto i meccanismi economici, come la concezione e l’organizzazione della società, e infine quella della società politica e dello stato. Intanto cresce il lavoro dipendente, o comunque subordinato, in tutto il mondo, anche nelle forme più primitive che ricordano persino gli albori del capitalismo. In effetti assistiamo ad una modernizzazione senza modernità, anzi con la insistente riproposizione di modelli politici e sociali che ricordano il passato, persino quello medievale. Il primo tratto distintivo di questo nuovo capitalismo globale è dunque quello dell’espansione, come in nessuna altra epoca storica era avvenuto, della forma del lavoro subordinato su scala mondiale. Di esso fanno parte non solo i lavoratori manuali, i classici operai, che lungi dallo scomparire, aumentano, ma anche i lavoratori intellettuali e moltissime figure di quello che un tempo si sarebbe definito, e a ragione, lavoro autonomo.

L’attualità del pensiero di Marx

Questo processo ci ripropone l’attualità del pensiero di Marx. La sua intuizione concernente la definizione di lavoro astratto, in quanto del tutto indifferente all’oggetto che produce, cioè "lavoro puro e semplice assolutamente indifferente alla sua particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza" (Karl Marx, Grundrisse, quaderno III), appare integralmente confermata e inverata nella condizione attuale del lavoro nel mondo. Anzi si potrebbe dire che sul grande schermo del globo scorrono le immagini pensate da Marx, non come pure figure, né come ombre o spettri, ma come soggetti in carne ed ossa. "D’altro canto l’operaio stesso è assolutamente indifferente alla determinatezza del suo lavoro; questo non gli interessa come tale, ma solo nella misura in cui è lavoro in generale e come tale valore d’uso del capitale" (K. Marx, ibidem). Ma questa non è forse oggi la condizione di tutti i moderni salariati del capitale, compresi i lavoratori intellettuali e gli intellettuali tout court? II nuovo capitalismo, insomma, si è incaricato di rendere giustizia alla capacita di analisi e di previsione di Karl Marx. L’intera situazione mondiale, oggi più che nel passato, può e deve essere ancora letta attraverso quella lente che Marx usò, cioè il paradigma di classe. Ma per la lettura a fondo e per la critica delle vecchie e nuove forme di alienazione, un altro paradigma si rivela oggi indispensabile, ed è quello della differenza di genere.

II nuovo ruolo degli intellettuali

In questo modo cambia anche, e profondamente, il ruolo degli intellettuali, che è precisamente l’oggetto del suo scritto. Dal nostro angolo di visuale, in Europa, vediamo assai bene questo processo: la riduzione degli intellettuali a "salariati del capitale". Storicamente, essi svolgevano una funzione, chi in modo conservativo e chi critico, di cerniera o di contestazione tra il potere politico e la società, godendo in questa condizione di una certa autonomia: quel loro ruolo era esercitabile solo attraverso una profonda capacità di riflessione sull’esistente, che dunque non poteva appiattirsi né sul punto di vista del potere né su quello medio presente nella società civile. Ora gli intellettuali sono invece ridotti alla condizione di chi, con il proprio lavoro intellettuale, fornisce un punto di snodo essenziale entro il complesso processo di valorizzazione del capitale. Il secondo tratto distintivo di questo nuovo capitalismo è costituito infatti da una importante modificazione nel processo di accumulazione e di valorizzazione del capitale. Infatti ciò che prima stava a fianco del processo produttivo, pur essendo ad esso indispensabile - come le relazioni tra le persone, l’organizzazione della propria vita privata e della sfera dei sentimenti, la trasmissione di informazioni, la formazione di idee e culture, insomma tutto ciò che un tempo rientrava nella funzione della ricostituzione e nella riproduzione della forza lavoro – oggi è immediatamente parte integrante del processo di valorizzazione del capitale. Ma anche la terra, l’ambiente, la vita vegetale, animale ed umana, cioè la natura, per usare un termine onnicomprensivo non sono più soltanto colpiti, inquinati e offesi dal capitalismo, ma sono intimamente depredati e ridotti ad oggetti del desiderio e della potenza di proprietà. La modernizzazione comporta anche questo, e cioè che il sistema capitalista ha abbattuto quella che una volta era una frontiera invalicabile persino per esso, cioè il limite del possesso della materia inerte e della materia vivente. Questo limite viene varcato dalle grandi società multinazionali quando pretendono di brevettare il genoma della vita vegetale, animale e umana, quando propugnano su larga scala l’uso delle biotecnologie, al solo fine di impossessarsi dei principi del vivente, di stabilire un monopolio o un oligopolio sulla stessa umanità. Come ha scritto recentemente un noto intellettuale americano, Jeremy Rifkin, che pure arriva a conclusioni opposte alle nostre, il viaggio del capitalismo cominciato con la mercificazione dello spazio e della materia, è giunto alla mercificazione del tempo e della durata della vita, e, aggiungerei io, della vita stessa.

La crisi degli Stati-Nazione

Il terzo tratto distintivo del nuovo capitalismo, che giustifica l’uso di questo oggettivo, e che ci porta ad analizzare la situazione dell’Europa, è costituito dalla profonda modificazione del ruolo degli stati nazionali. Il sistema capitalistico nell’ultimo quarto del secolo XIX e lungo quasi tutto il Novecento ha fondato la propria capacità espansiva e di dominio attraverso il ruolo degli stati nazionali. Grazie ad essi, ha regolato i rapporti di classe interni, dando vita in particolare nel secondo dopoguerra al sistema del welfare state; con essi ha fronteggiato la minaccia costituita dalle società post-rivoluzionarie; sulla loro forza esso ha basato la capacita espansiva del suo modello economico e sociale; su questa base si sono sviluppate le contraddizioni interne al sistema imperialista; le guerre sono state guerre fra stati. Oggi invece assistiamo ad una profonda crisi dello Stato-Nazione, che investe particolarmente gli stati europei. Non voglio certo dire che spariscono gli stati, (anzi, al contrario essi si stanno moltiplicando: basta guardare a quello che è successo nei Balcani), ne che essi abbiano perso qualunque ruolo d’intervento nella economia. Ma certamente questo ruolo è fortemente ridimensionato dall’alto, se così si può dire, in primo luogo dalla natura stessa di questa rivoluzione capitalistica e in conseguenza della supremazia politica e militare degli Usa, dei vincoli che a essi sono imposti dai trattati e dai patti con cui è stata costruita l’Unione europea e dell’aumento del concreto potere degli organi di governo economici, politici e militari del capitalismo globale, dal Fondo Monetario Internazionale all’Organizzazione Mondiale del Commercio, dal G8 (che a Okinawa propone per risolvere i problemi dell’Africa la diffusione di Internet!) alla Nato; e dal basso per le spinte regionalistiche e localistiche, ammantate dal mito del federalismo o da quello assai più grezzo del secessionismo, come nel caso dell’italiano Umberto Bossi, fino agli estremi di concepire la nascita di nuovi stati su basi etniche, che tendono a delineare un’aggregazione di regioni, secondo il principio di unire le "aree omogenee di business", come ha sostenuto il famoso manager Kenichi Ohmae. Uno studioso italiano, Marco Revelli, già qualche anno fa osservava che "per usare una semplificazione, possiamo dire che con il modello produttivo fordista-taylorista giunge alla propria estinzione e al proprio trapasso anche il modello statuale keynesiano. Il che non significa che si estingue lo stato tout court. Che la mondializzazione capitalistica realizzi il progetto marxiano della estinzione dello stato. Significa solo che lo stato modifica ruolo e funzioni. Sposta il baricentro dalla funzione di mediazione sociale che l’aveva caratterizzato per l’intera fase del novecento maturo, a funzioni più univoche, di gestione territoriale dei flussi, di organizzazione amministrativa delle competenze per attirare e accaparrare masse mobili di ricchezza, linee di investimento. Non è più lo stato che impresta la propria forma all’impresa, ma è l’impresa che impone il proprio modello organizzativo all’apparato amministrativo pubblico". Un altro intellettuale europeo, Zygmunt Bauman, affina l’analisi sui processi attualmente in atto di frammentazione della sovranità politica e osserva che "paradossalmente, nell’epoca dell’economia cosmopolita la territorialità della sovranità politica diviene essa stessa un importante fattore di incremento della libera circolazione del capitale e delle merci. Più le unità sovrane sono frammentate, più debole e di portata limitata sarà la loro presa sui rispettivi territori, e ancora più libero sarà il flusso globale di capitale e di merci. La globalizzazione dell’economia, l’informazione e la frammentazione (in realtà una sorta di nuova organizzazione localistica) della sovranità politica non sono, contrariamente alle apparenze, tendenze contrapposte e quindi in conflitto tra loro e incompatibili; sono piuttosto fattori co-presenti nel riordinamento continuo dei vari aspetti dell’integrazione sistemica".

Un’Europa senza sovranità politica?

In questo clima, l’attuale Presidente del consiglio dei ministri italiano, Giuliano Amato, considera l’esperienza europea degli stati nazionali come una parentesi chiusa e, in una recente intervista ad un quotidiano del nostro paese, ha affermato che "il Medio Evo è bellissimo: sa avere i suoi centri decisionali, senza affidarsi interamente a nessuno. E’ al di là della parentesi dello stato nazionale. Anche oggi, come allora, riemergono nelle nostre società i nomadi. Anche oggi abbiamo poteri senza territori su cui piantare bandiere. Senza sovranità non avremo il totalitarismo. La democrazia non ha bisogno di sovrani". In realtà qui viene delineata con molta nettezza e lucido cinismo la prospettiva di un’Europa a-democratica, senza democrazia, nella quale il tema della democrazia non è neppure proponibile, come in fondo aveva previsto un altro intellettuale europeo di formazione liberale, Ralf Dahrendorf; ma su questa questione tornerò tra poco. A questo processo di frammentazione, di riduzione di peso e di modificazione di ruolo degli stati nazionali europei, si contrappone invece la crescita del potere e della funzione mondiali dello stato statunitense, che assume, per ragioni storiche, politiche, militari e culturali, la connotazione di centro dell’impero e di modello sociale preferito dalla globalizzazione, di regolatore, attraverso l’uso della guerra come metodo usuale e permanente, dei vari conflitti nel mondo. La guerra non è più semplicemente la prosecuzione della politica con altri mezzi, secondo la celebre definizione di von Clausewitz, ma diventa una dimensione costante della politica del nuovo sistema imperiale, si fa costituente di questo stesso ordine, così che il mondo vive in uno stato di guerra permanente in cui si alternano fasi di guerra guerreggiata a fasi di guerra latente. La guerra nei Balcani è diventata così una guerra costituente e la Nato ha assunto il monopolio della forza. Mi pare quindi che i tre elementi che ho tracciato, ma altri, di segno analogo, se ne potrebbero naturalmente aggiungere, ci autorizzano a parlare di nuovo capitalismo e configurano il processo in corso come quello di una rivoluzione restauratrice capitalistica: ecco un nuovo ossimoro! La condizione dell’Europa e dell’Italia, di cui lei esplicitamente ci chiede, è tutta interna a questo processo e in questo quadro va analizzata.

Allargamento verso l’Est

II nostro vecchio continente ci appare oggi attraversato da due tendenze. La prima indica una sorta di ipertrofia, per cui le classi dirigenti europee progettano un allargamento dei confini dell’Unione europea, puntando naturalmente nella direzione delle parti che sono finora escluse, cioè verso Est. In questo senso si muove la recente sortita del ministro degli esteri tedesco Fischer che propone la costituzione di un’"avanguardia" di paesi che si assumano la responsabilità e il governo dell’allargamento ad Est dell’Unione europea e traccino i caratteri di una possibile "Federazione", quindi con l’intenzione di compiere in tempi brevi un notevole passo avanti rispetto alla costituzione materiale e formale dell’odierna Europa. A questa risponde in modo ostile il governo delle sinistre francese di Jospin, mentre il Presidente Chirac appare assai più disponibile, pure insistendo sulla sua impostazione di una Unione come "Europa delle Patrie". Per quanto riguarda l’Italia, se il Presidente della Repubblica italiana Ciampi ripropone il tema di una Costituzione europea, il Presidente del consiglio, con l’intervista che ricordavo poco sopra scende decisamente in campo con una prospettiva ben diversa, perfettamente in sintonia con le tendenze già in atto, con i programmi e persino con gli umori dei centri finanziari mondiali. Il capo del governo italiano attacca le proposte neofederaliste perché le considera figlie e prigioniere di una vecchia cultura dello stato nazionale e contemporaneamente chiede che l’allargamento dell’Unione ai paesi orientali avvenga in tempi anticipati e comunque brevi, anche attraverso la sperimentazione di periodi transitori. Si dichiara contrario ad ogni tipo di salto istituzionale e di costituzionalizzazione dei diritti. Sottolinea la necessità di un accordo unanime nella riunione del consiglio europeo di Nizza previsto per il prossimo dicembre (e questa sarà anche la prossima tappa di mobilitazione per i movimenti antiliberisti e anticapitalisti del continente europeo). Vuole che nella cosiddetta "avanguardia" siano comprese la Spagna del governo di destra di Aznar e la Gran Bretagna di Blair, indicando nelle (contro) riforme economiche di quei paesi il modello da seguire, in evidente polemica con l’asse franco-tedesco. Ma soprattutto pensa, come ho già detto, ad un’Europa senza democrazia, nella quale non viga il principio della legittimazione democratica del potere, su cui ragionò il fondatore del pensiero liberale John Locke. L’Europa dovrebbe essere in sostanza governata da poteri non sovrani, cioè pure articolazioni e funzioni del sistema imperiale del capitalismo globalizzato, sopravanzando su questo terreno gli stessi Usa.

Socialismo o barbarie

Per quanto riguarda la seconda tendenza che si verifica in Europa, posso forse spendere meno parole, poiché ne ho già parlato nel nostro precedente carteggio, come lei stesso ricorda. Ma quella condizione di cui parlavo diversi mesi fa si è ulteriormente aggravata e inasprita. In Europa stiamo assistendo ad una sorta di eclissi della sua civiltà, quella che si è andata costruendo attraverso i millenni, cui hanno contribuito religioni, culture, filosofie, arti e scienze, cosi come pratiche consolidate diventate senso comune e modi di vita di intere popolazioni, e su cui tanto e positivamente ha pesato lo sviluppo delle lotte di classe in particolare negli ultimi due secoli. Tutto questo subisce un’aggressione dal processo di omologazione indotto dalla globalizzazione. Il pensiero unico dell’impresa e del mercato, del profitto e dello sfruttamento, insomma il pensiero unico del nuovo capitalismo, quello di cui parla Ramonet, produce nei fatti un accelerato imbarbarimento e comunque una spoliazione di tradizioni, di culture, di pensiero critico. II fenomeno Haider non è un incidente di percorso ma una particolare manifestazione di questa tendenza e per questo solleva giustamente l’indignazione e l’opposizione attiva delle forze democratiche e alternative. La vecchia alternativa marxiana, descritta fin dal Manifesto del Partito comunista, tra socialismo e barbarie, torna dunque, nelle mutate condizioni, di intensa attualità. Questo può avvenire anche perché è complessivamente mutato il ruolo degli intellettuali in tutto il continente europeo. Essi, nella loro generalità, non sono più una cerniera fondamentale nella formazione della coscienza di una nazione, non più un punto di vista critico dotato di autonomia dal potere politico e dal senso in quel momento prevalente nella società. Essi sono diventati un ceto cooptato nel governo allargato della società secondo gli interessi delle classi dominanti, sono uno snodo della trasmissione di quel pensiero unico, sono diventati una funzione nell’organizzazione del sistema comunicativo- relazionale, che, come abbiamo già detto, diventa parte integrante del processo di valorizzazione del capitale. Questo non significa che non esistano movimenti intellettuali in controtendenza, come dirò più avanti, ma il processo, se non viene efficacemente contrastato ha quel segno inequivocabile.

II senso della guerra nei Balcani

Nel loro insieme queste due tendenze, tra loro complementari configurano il modo con il quale l’Europa intende disporsi entro il processo di globalizzazione. Si può anche dire che su questo terreno, attraverso la riorganizzazione del proprio spazio geografico e sociale, l’Europa si pone in competizione con gli stessi Usa, progettando, almeno nelle intenzioni, un sorpasso nel ruolo egemonico sempre dentro la globalizzazione. Insomma l’Europa è a un tempo vittima e protagonista del processo di americanizzazione che la investe. Una analoga ambivalenza si è manifestata anche per la guerra di aggressione della Nato alla Yugoslavia della primavera del ’99. Certamente quella guerra è stata voluta dagli Usa, è avvenuta in assoluto dispregio di ogni regola del diritto internazionale e persino dello statuto interno alla Nato, ed è certamente servita anche per rimpicciolire le ambizioni europee di diventare un soggetto politico autorevole ed autonomo sulla scena mondiale. Ma allo stesso tempo quella guerra è stata richiesta e voluta fortemente dai principali paesi europei, ha rappresentato un’esibizione muscolare da parte delle classi dirigenti europee che rivendicano quella decisione con determinazione e orgoglio in ogni occasione: anche per loro essa è stata una guerra costituente di un nuovo ordine. Infatti il Presidente del consiglio italiano Giuliano Amato, sempre in quell’intervista, può dire che quella guerra non avvenne per decisione di un sovrano, ma "i poteri vennero devoluti alla Nato, che non e un sovrano" e concludere che "così si dovrà fare per le politiche comuni dell’Europa". II disegno è dunque quello di costruire una dimensione statuale dell’Europa, senza democrazia, senza sovranità e senza popolo. Così come il sistema delle imprese nell’epoca post-fordista si costruisce e si articola sul modello della rete, così lo stato e le istituzioni politiche sovranazionali vengono disegnate anch’esse come una rete di funzioni, di cui è importante, dal punto di vista del potere reale, nascondere il centro, per impedire ogni rivendicazione di controllo e ogni verifica di legittimità.

I governi delle sinistre

Queste tendenze non sono solo dei dati obiettivi. Esse chiamano in causa delle responsabilità soggettive, e, per quanto ci interessa più da vicino, quelle delle forze politiche della sinistra moderata o, meglio sarebbe dire, liberale. Del resto la constatazione è palese e addirittura clamorosa: tutto questo processo involutivo avviene mentre le sinistre sono al governo quasi dappertutto, generalmente con coalizioni di centro-sinistra, naturalmente con la significativa eccezione della Spagna, nei paesi dell’Unione europea. Come ha osservato un altro importante intellettuale italiano, Mario Tronti, in un intervista al nostro giornale Liberazione la sinistra in Europa è andata al governo quando il movimento operaio ha perso e questa "cosiddetta vittoria della sinistra ha coinciso con una persistente e dilagante egemonia ed iniziativa capitalistica", dunque "la sinistra è al governo ma è sconfitta". Essa ha abbracciato le idee liberali, ha abbandonato il paradigma di classe, e questo le impedisce di leggere la stessa realtà; malgrado che la cosiddetta "Terza via" sia uscita malconcia dalle più recenti prove politiche ed elettorali (penso ad esempio all’elezione di una figura come Ken Livingstone a sindaco di Londra, che dimostra che, per quanto forti siano questi processi non sono inarrestabili né invincibili) questo tipo di sinistra persiste in questa deriva. Siamo davvero giunti ad un paradosso. Più di cinquant’anni fa il più importante pensatore liberale italiano di questo secolo, Benedetto Croce, scriveva che il liberalismo doveva separarsi dal liberismo economico, perché quest’ultimo provocava eccessive ingiustizie e un’insopportabile conflittualità sociale. Oggi invece la sinistra di governo, approdata alle rive del pensiero liberale con l’ansia del neofita, accetta e pratica le stesse ricette liberiste in campo economico e sociale. Non solo ma spesso addirittura rovescia il monito di Croce, per cui si fa liberista senza neppure essere coerentemente liberale sul terreno delle libertà e dei diritti dei singoli.

I problemi politici dell’Italia

In Italia la crisi del centrosinistra è acuta ed evidente. Le forze della sinistra moderata e liberale e l’insieme della coalizione hanno subito pesanti sconfitte nelle elezioni europee dell’anno scorso, nel referendum sul sistema elettorale maggioritario, nelle elezioni regionali di quest’anno. Ma al di là di tutto questo è evidente che è entrato definitivamente in crisi il progetto di occupare il centro del1o schieramento politico e sociale muovendo da sinistra, attraverso un progressiva e accelerata perdita di identità ideale e politica. Il progetto di un ridisegno de1 sistema elettorale secondo lo schema della competizione e dell’alternanza di due schieramenti, centrodestra e centro-sinistra, peraltro sempre più simili nei contenuti programmatici, assecondando così un processa di americanizzazione delle istituzioni e del sistema politico, è miseramente fallito grazie al fatto che il settanta per cento degli elettori italiani si è astenuto nel referendum che voleva imporre un meccanismo elettorale di tipo maggioritario, dunque seppellire definitivamente il ruolo dei partiti di massa e impedire l’accesso delle formazioni di opposizione alla rappresentanza istituzionale. Contemporaneamente le classi dirigenti italiane, il potere economico, le organizzazioni padronali, hanno sciolto la precedente ambiguità ed hanno scelto di puntare sulle destre guidate da Berlusconi. Il progetto egemonico della sinistra liberale è risultato sconfitto; nella coalizione di centrosinistra le forze di centro hanno ripreso forza e progettano una loro autonomizzazione; le opposizioni di destra sembrano avere accresciuto la loro presa su diversi settori della società; mentre l’abbandono della partecipazione politica e alle scadenze elettorali continua ad aumentare anche da noi, ove, rispetto ad altri paesi europei, la media della presenza al voto è stata sempre assai elevata. Insomma, l’inseguimento delle destre sul loro terreno sembra riproporre l’antico paradosso di Zenone, per cui per quanto veloce fosse Achille non riusciva a raggiungere la tartaruga.

La nuova forza della destra

Dal canto loro le destre si stanno preparando in modo agguerrito alla prossima scadenza elettorale politica per il rinnovo del parlamento che si terra nella primavera del 2001. Non si tratta semplicemente di un’ansia di rivincita elettorale, dopo la sconfitta del governo Berlusconi e la sconfitta elettorale del ’96. C’è di più, vi è il progetto di fare diventare il nostro paese come un laboratorio per le destre, per sperimentare nuove politiche da riproporre in Europa. In questo senso le destre italiane cercano anche di fare tesoro degli insegnamenti che derivano dalle sconfitte che ho prima ricordato. Il loro obiettivo è arrivare ad una commistione tra la innovativa capacità di mediazione politica e sociale di un Aznar, e l’estremismo razzista e localista di Haider, passando per il secessionismo più proclamato che praticato di Bossi. In sostanza le destre vogliono coniugare le esigenze e l’ideologia dell’impresa con una sorta di populismo proprietario (ecco un altro ossimoro), sfruttando tutti gli e1ementi di paura, di incertezza, di instabilità anche psicologica che derivano come conseguenza sulle persone dai processi stessi di globalizzazione.

Qualche importante segno di "disgelo"

A questo punto del discorso che ormai, o finalmente, volge al termine, sorge necessariamente un interrogativo fondamentale: è possibile contrastare questi processi? La mia risposta è positiva. Non si tratta solo dell’ottimismo della volontà contrapposto al pessimismo della ragione. Si tratta di osservare quanto sta avvenendo, nel mondo e da noi. Negli ultimi mesi si è venuto consolidando un movimento internazionale contro il liberismo nelle sue diverse manifestazioni. II popolo indigeno del Chiapas e l’Ezln non sono mai stati soli, ma oggi la compagnia è molto più larga e varia. Non solo sul terreno della necessaria e utile solidarietà, ma su quello della moltiplicazione dei soggetti in lotta e dei fronti di lotta. A Seattle lo scorso autunno abbiamo assistito al battesimo di un movimento mondiale contro la globalizzazione. Non è stato un fatto improvviso, anche se la sua ampiezza e la sua consistenza ci ha colto, diciamo la verità, di sorpresa. Una volta tanto si è trattato di una sorpresa gradita e piacevole, ma quell’appuntamento è stato preparato da tante battaglie locali che fino a quel momento non erano riuscite neppure a farsi conoscere e a entrare in connessione tra loro. Quell’appuntamento ha avuto successo anche perché si è materializzato utilizzando gli strumenti e le vie del nemico capovolgendo i loro fini, valga per tutti l’esempio delle denunce e dei messaggi corsi su Internet. Quell’appuntamento è stato fondamentale non solo perché si sono trovati in tanti e diversi, dai sindacati americani ai gruppi ecologisti, dai contadini francesi ai campesinos latino - americani, ma perché tutti insieme partendo da premesse e percorsi differenti, hanno individuato un unico nemico, il concreto governo del nuovo capitalismo globalizzato. Proprio questo ha permesso che quell’esperienza parlasse da tutto il mondo a tutto il mondo e che appuntamenti come quello si ripresentino ogni volta che il nemico fissa i suoi appuntamenti. E i prossimi sono quelli di Praga e di Nizza. Al punto che c’è già chi suggerisce - ne parlava qualche giorno fa proprio il quotidiano della Confindustria, l’organizzazione padronale italiana - di abolire gli incontri internazionali sostituendoli con conferenze a distanza per via informatica e televisiva, precedute da contatti e accordi segreti. Eppure anche il famigerato Ami (Accordo multilaterale sugli investimenti) doveva restare segreto, ma venne smascherato, come ci ricorda anche Noam Chomsky nel suo ultimo libro, da denunce e contestazioni rese note via Internet, oltreché, va ricordato, dall’impegno del governo di un paese, come la Francia, che mantiene ancora il senso dello stato. Possiamo e dobbiamo quindi parlare di un disgelo dei movimenti e della conflittualità a livello mondiale. Questo processo investe settori nuovi e nuovi soggetti, cioè quelli che entrano ora nel processo di valorizzazione del capitale, ma anche condizioni sociali e protagonisti più tradizionali.

Un caso esemplare: la Zanussi

Voglio farle un esempio, tratto dalla situazione italiana. In una grande fabbrica, ormai diventata una multinazionale del settore degli elettrodomestici, la Zanussi, due dei maggiori sindacati dei metalmeccanici avevano firmato un accordo capestro, in base al quale si sarebbe dovuto instaurare, in ossequio al mito della flessibilità, una nuova figura di lavoratore, l’operaio "a chiamata". Questo avrebbe dovuto rimanere in attesa di una chiamata al lavoro in qualunque momento, in un giorno feriale come in uno festivo, sulla base di un preavviso minimo, a discrezionalità totale dell’impresa e rimanendo egli a completa disposizione di quest’ultima anche nei periodi di non lavoro. Ebbene, grazie all’opposizione di un importante sindacato, la Fiom, non firmatario dell’accordo, delle forze sociali e politiche della sinistra di alternativa, fra cui il nostro partito, il referendum fra tutti i lavoratori dei vari stabilimenti dell’azienda ha visto prevalere con il settanta per cento dei voti il no all’accordo. Si è trattato di una grande vittoria contro le organizzazioni padronali, contro una linea sindacale di subordinazione al punto di vista dell’impresa, contro la presunta oggettività delle esigenze della produzione. Questo esempio ed altri ancora che si potrebbero indicare nel contesto europeo ci fanno parlare di una possibile ripresa del conflitto di lavoro, che vede protagonisti una nuova generazione di lavoratori, prevalentemente precari, che si oppone al padronato e alla linea di cedimento dei sindacati tradizionali, che dà vita a originali esperienze di lotta e di organizzazione, che più facilmente e spontaneamente che nel passato incontrano altri movimenti che si originano su altri terreni, come quelli dell’ambiente o della differenza di genere. L’8 luglio di quest’anno, nell’anno delle celebrazioni del Giubileo, si è tenuto a Roma (ecco un altro esempio, assai diverso da quello precedente), non senza aspri contrasti non solo con la Chiesa, ma con lo stesso governo di centro sinistra, la manifestazione del World Gay Pride. A Roma, hanno sfilato probabilmente mezzo milione di persone, e noi eravamo con loro, con un coinvolgimento solidale di amplissimi settori della popolazione della nostra capitale; certamente si è trattato di una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni. Ma non è solo la quantità dei partecipanti ad avere segnato l’appuntamento, ma la sua qualità: l’orientamento a sinistra che era evidente da parte della stragrande maggioranza dei partecipanti. In sostanza anche sul terreno dell’affermazione dei diritti individuali, certamente uno dei più lontani da quello del tradizionale conflitto di classe, si è verificata concretamente la possibilità di unire forze fra loro diverse contro ideologie e culture dominanti; potrei dire con qualche azzardo, di coniugare la ricostruzione della lotta per la liberazione del lavoro a quella della persona umana.

Sinistra alternativa, sinistra plurale

In stretta connessione con lo sviluppo di questi movimenti noi pensiamo che sia concretamente possibile costruire una larga sinistra alternativa a livello europeo e nel quadro italiano, ponendo come discriminanti e elementi unificatori l’opposizione alla guerra costituente e alle politiche neoliberiste. Sulla base di questi due punti ben fermi vogliamo realizzare, sperimentando anche con fantasia nuove forme organizzative, l’incontro tra Rifondazione Comunista e altre soggettività, nel nostro paese come nel mondo intero, portatrici di pensieri critici nei confronti del nuovo capitalismo globale, che per dare coerenza e realizzazione alle loro istanze si scontrano contro le politiche liberiste e di guerra. Questo protagonismo può diventare, nello stesso tempo, la leva per produrre la crisi delle politiche di centro-sinistra e la ricostruzione di una sinistra plurale in Italia e in Europa. La lotta contro la globalizzazione è possibile, è reale, è già in atto, anche dove non sempre ne sappiamo riconoscere i caratteri. Bisogna dunque lavorare di martello e di scalpello. Con la convinzione che è necessario e possibile contrapporsi al nuovo sistema imperiale, senza cercare di sfuggirvi per via individuale. II nuovo mondo o è il risultato di un’opera collettiva o non è. Ma se non sarà le cose non resteranno uguali, ma le nuove generazioni conosceranno un arretramento spaventoso della civiltà umana. La globalizzazione, la globalizzazione frammentata, come lei la chiama, è il nostro nemico. La sua forza è reale e evidente, e ci appare persino gigantesca, quasi inaccessibile; ma ogni volta che viene attivamente contrastata si dimostra che il nuovo capitalismo ha fin qui vinto, ma non ha convinto. Tornano d'attualità le parole di Marx: "II proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza storica universale" (Marx- Engels L’ideologia tedesca).

Arrivederci, subcomandante.

P. S.: Ho molto apprezzato la sua metafora michelangiolesca, perché essa ci parla in fondo dell’essenza della politica rivoluzionaria che deve sempre tenere conto delle condizioni date senza mai sottomettersi a queste ultime. Mi ha anche ricordato alcune righe di Antonio Gramsci, scritte in carcere agli inizi degli anni trenta, dove ricorre un paragone fra il lavoro di martello e di scalpello di Michelangelo e quello dell’ostetrica per portare alla luce il neonato (Antonio Gramsci Quaderni del carcere, quaderno VII). Il Buonarroti, che certo fu più scultore e pittore che non poeta, dedica a questo lavoro dell’artista alcuni versi in rima, che Gramsci annota e che qui riporto se non altro perché mi pare un buon modo per salutarci: "Non ha l’ottimo artista alcun concetto / che un marmo solo in se non circoscriva / col suo soverchio e solo a quello arriva / la mano che obbedisce all’intelletto".